Cassazione sezioni unite - sentenza del 2010 capitalizzazione semplice
Le Sezioni Unite del 2010: la c.d. “capitalizzazione semplice” e il termine iniziale di decorrenza della prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito. Le rimesse ripristinatorie e le rimesse solutorie.
Le Sezioni Unite nel 2010 sono state chiamate ad esprimersi su due questioni.
La prima, quella afferente l’applicabilità, stante la nullità della clausola anatocistica trimestrale, di un diverso regime di capitalizzazione.
Secondo una prima posizione, infatti, dichiarata nulla la clausola anatocistica, alla capitalizzazione trimestrale deve essere sostituita una capitalizzazione semestrale, in quanto esisterebbe un ulteriore uso normativo in tal senso[1]. Pertanto, la nullità non investirebbe tutta la clausola anatocistica, ma solo quella parte afferente la capitalizzazione trimestrale degli interessi, cosicché la «convenzione anatocistica rimane valida, ma la capitalizzazione sarà semestrale».
Sempre nella stessa ottica, si è affermata la necessità di applicare l’istituto della conversione del contratto nullo, disciplinato dall’art. 1424 cod. civ., in forza del quale lo stesso può produrre gli effetti di un diverso contratto del quale abbia i requisiti di sostanza e di forma, qualora le parti lo avrebbero voluto se poste a conoscenza della nullità.
Pertanto, la clausola anatocistica è nulla, ma produttiva degli effetti di una capitalizzazione semestrale: la ripetizione dell’indebito, quindi, dovrebbe limitarsi «al delta tra gli interessi composti percepiti dalla banca a seguito della capitalizzazione trimestrale, e quelli che sarebbero stati dovuti con una capitalizzazione semestrale».
Secondo altri, la capitalizzazione degli interessi deve essere annuale. Tale tesi è quella che, in passato, ha trovato maggiori consensi nella giurisprudenza di merito (tra le tante, App. Roma, 8 novembre 2007, in Pluris on line; Trib. Rimini, 29 settembre 2005, in Corr. mer., 2006, p. 310; Trib. Cagliari, 29 marzo 2007, in Riv. giur. sarda, 2008, p. 382; Trib. Benevento, 8 gennaio 2008, in Pluris on line; Trib. Padova, 23 febbraio 2009, in www.ilcaso.it; Trib. Bari, sez. Monopoli, 29 dicembre 2009, in www.giurisprudenzabarese.it; Trib. Padova, 19 novembre 2010, in Pluris on line).
Il riferimento normativo, in questo caso, è l’art. 1284 cod. civ. A fondamento di tale tesi, quindi, non viene posta l’affermazione dell’esistenza di un uso normativo, quanto la considerazione che è lo stesso legislatore ad aver individuato, all’art 1284 cod. civ., tale unità di tempo per la determinazione del saggio degli interessi legali.
La posizione espressa dalle Sezioni Unite del 2010 è stata quella della c.d. «capitalizzazione semplice» (che aveva già ricevuto ampi consensi in giurisprudenza: Trib. Terni, 16 gennaio 2001; Trib. Milano, 4 luglio 2002, in Giur. merito, 2003, I, p. 245; Trib. Urbino, 27 marzo 2004, in Le Corti marchigiane, 2006, I, p. 123; Trib. Mondovì, 17 febbraio 2009, ivi, 2009, p. 973; Trib. Isernia, 10 febbraio 2010, in Pluris on line), secondo cui, una volta dichiarata la nullità della clausola anatocistica, non è più consentita alcuna capitalizzazione; e tale scelta appare maggiormente in linea con precise scelte legislative, quale quella operata dall’art. 1815, comma 2, cod. civ.
Ne consegue che la banca è tenuta a restituire al cliente l’intera somma derivante dalla capitalizzazione degli interessi e non la mera differenza tra la capitalizzazione trimestrale e una diversa capitalizzazione.
Il principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite è il seguente: «l’interpretazione data dal giudice di merito all’art. 7 del contratto di conto corrente bancario stipulato dalle parti in epoca anteriore al 22 aprile 2000, secondo la quale la previsione di capitalizzazione annuale degli interessi contemplata dal primo comma di detto articolo si riferisce ai soli interessi maturati a credito del correntista, essendo invece la capitalizzazione del debito prevista dal comma successivo su base trimestrale, è conforme con i criteri legali di interpretazione del contratto e, in particolare, a quello che prescrive l’interpretazione sistematica delle clausole; con la conseguenza che, dichiarata la nullità della surriferita previsione negoziale di capitalizzazione trimestrale per contrasto con il divieto dell’articolo 1283 c.c., gli interessi a debito del correntista debbono essere calcolati senza operare capitalizzazione alcuna».
La Suprema Corte, nel giungere a tale conclusione, muove dalla considerazione dell’inesistenza di un uso normativo in materia che possa derogare ai limiti posti all’anatocismo dall’art. 1283 cod. civ. e, quindi, consentire la capitalizzazione degli interessi. Invero, gli usi normativi, che prevedano una capitalizzazione diversa da quella trimestrale, prima che difettare del requisito della «normatività», non si rinvengono nella «realtà storica».
Tale posizione è stata costantemente riaffermata negli anni successivi fino ad oggi (Cass., 21 aprile 2016, n. 8088; Cass., 6 maggio 2015, n. 9127; Cass., 18 settembre 2014, n. 19896; Cass., 14 marzo 2013, in CED on line, 2013;. Trib. Torino, 17 febbraio 2016, in www.ilcaso.it; Trib. Roma, 19 febbraio 2013, in Pluris on line; Trib. Milano, 3 gennaio 2011, in Danno resp., 2012, p. 315).
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Altra questione di rilievo, di cui si sono occupate le Sezioni Unite del 2010, è quella relativa all’individuazione del termine di decorrenza della prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito conseguente alla nullità della clausola anatocistica.
Infatti, mentre l’azione per far valere la nullità, come è noto, è imprescrittibile ai sensi dell’art. 1422 cod. civ., diversamente, l’azione diretta a conseguire la ripetizione dell’indebito è soggetta al termine di prescrizione ordinario decennane.
In via generale, l’art. 2935 cod. civ. fissa la decorrenza della prescrizione dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere e, quindi, in tale àmbito, dal momento della chiusura del rapporto di conto corrente. Invero, stante la natura unitaria del rapporto di conto corrente, che dà luogo a un unico rapporto giuridico, se pur articolato in una pluralità di atti esecutivi, la prescrizione deve iniziare a decorrere dal momento della chiusura del conto (Cass., 9 aprile 1984, n. 2262; Cass, 25 febbraio 2005, n. 4092 in Rep. Foro it., 2005, voce Contratti bancari, n. 3; Cass, 25 febbraio 2005, n. 4093, ibidem, voce cit., n. 5; Cass., 25 febbraio 2005, n. 4094, ibidem, voce cit., n. 6; Cass., 22 marzo 2005, n. 6187; Cass., 19 maggio 2005, n. 10599; Cass., 13 ottobre 2005, n. 19882; Cass, 18 gennaio 2006, n. 870; Cass., 1° marzo 2007, n. 4853; Cass., 10 maggio 2007, n. 10692, in Banca borsa tit. cred., 2008, II, p. 707; Cass., 11 febbraio 2008, n. 3181, in Giur. it., 2008, p. 1724; App. Firenze, 23 marzo 2010; Trib. Pescara, 4 aprile 2004, in Corr. merito, 2005, p. 758; Trib. S. Maria Capua Vetere, 7 gennaio 2005, in Nuova giur. civ. comm., 2006, I, p. 22; Trib. Pescara, 6 maggio 2005, in Foro it., 2005, I, c. 2177; Trib. Rimini, 29 settembre 2005, in Corr. mer., 2006, p. 301; Trib. Lecce, 3 novembre 2005, in Corr. merito, 2006, p. 442; Trib. Mantova, 20 gennaio 2009, in Corr. giur., 2010, p. 387; Trib. Bari, 24 febbraio 2009; Trib.
Benevento, 8 giugno 2009; Trib. Roma, 9 giugno 2009; Trib. Salerno, 12 giugno 2009; Trib. Lecce, 16 giugno 2009; Trib. Benevento, 17 giugno 2009; Trib. Roma, 8 settembre 2009; Trib. Milano, 14 ottobre 2009; Trib. Salerno, 27 novembre 2009; Trib. Salerno, 2 gennaio 2010; Trib. Brescia, 18 gennaio 2010, in Contratti, 2010, p. 282; Trib. Benevento, 26 gennaio 2010; Trib. Milano, 8 febbraio 2010; Trib. Salerno, 12 febbraio 2010; Trib. Aquila, 1° marzo 2010; Trib. Bari, 29 aprile 2010; Trib. Piacenza, 22 dicembre 2010; Trib. Perugia, 22 febbraio 2011, in Pluris on line).
Tuttavia, vi è era una diversa opinione (App. Brescia, 16 gennaio 2008, in www.ilcaso.it.; Trib. Mantova, 12 luglio 2008; Trib. Mantova, 2 febbraio 2009, in www.ilcaso.it.), secondo la quale la decorrenza del termine prescrizionale doveva decorrere dal momento della singola annotazione posta in contestazione, in quanto l’annotazione non costituirebbe una mera operazione contabile, ma integrerebbe un pagamento di un debito del cliente nei confronti della banca.
Le Sezioni Unite del 2010 hanno confermato la precedente posizione giurisprudenziale, ritenendo che il termine di prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito inizia a decorrere dalla data di chiusura del rapporto, ponendo, tuttavia, una distinzione, inesistente nella precedente giurisprudenza in materia e mutuata da quella fallimentare, tra rimesse ripristinatorie e rimesse solutorie.
In tale àmbito, l’annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati dalla banca al correntista ha natura meramente ripristinatoria e «comporta un incremento del debito del correntista, o una riduzione del credito di cui dispone, ma in nessun modo si risolve in un pagamento [...] perché non vi corrisponde alcuna attività solutoria del correntista medesimo in favore della banca».
Secondo le Sezione Unite occorre aver riguardo, piuttosto che alla natura unitaria del rapporto di conto corrente, alla natura ed al funzionamento del contratto di apertura di credito bancario: «come agevolmente si evince dal disposto degli artt. 1842 e 1843 c.c. l’apertura di credito si attua mediante la messa a disposizione, da parte della banca, di una somma di denaro che il cliente può utilizzare a anche a più riprese e della quale, per l’intera durata del rapporto, può ripristinare in tutto o in parte la disponibilità eseguendo versamenti che più gli consentiranno poi eventuali ulteriori prelevamenti entro il limite complessivo del credito accordatogli. Se, pendente l’apertura di credito, il correntista non si sia avvalso della facoltà di effettuare versamenti, pare indiscutibile che non vi sia alcun pagamento da parte sua, prima del momento in cui, chiuso il rapporto, egli provveda a restituire alla banca il denaro in concreto utilizzato. In tal caso, qualora la restituzione abbia ecceduto il dovuto a causa del computo di interessi in misura non consentita, l’eventuale azione di ripetizione d’indebito non potrà che essere esercitata in un momento successivo alla chiusura del conto, e solo da quel momento comincerà perciò a decorrere il relativo termine di prescrizione. Qualora, invece, durante lo svolgimento del rapporto il correntista abbia effettuato non solo prelevamenti ma anche versamenti, in tanto questi ultimi potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, tali da poter formare oggetto di ripetizione (ove risultino indebiti), in quanto abbiano avuto lo scopo e l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca. Questo accadrà qualora si tratti di versamenti eseguiti su un conto in passivo (o, come in simili situazioni si preferisce dire “scoperto”) cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, o quando i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento. Non è così, viceversa, in tutti i casi nei quali i versamenti in conto, non avendo il passivo superato il limite dell’affidamento concesso al cliente, fungano unicamente da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancóra continuare a godere».
Diversamente, hanno natura solutoria i versamenti «cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, o quando i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento», con la conseguenza che il termine di prescrizione decennale dell’azione di ripetizione dovrà decorrere proprio dalla data del pagamento, ove ovviamente ritenuto indebito. Invero, il
diritto alla ripetizione presuppone l’esistenza di un pagamento, che deve essere «tradotto nell’esecuzione di una prestazione da parte di quel medesimo soggetto (il solvens), con conseguente spostamento patrimoniale in favore di altro soggetto (l’accipiens)».
Ciò comporta, in materia di prescrizione, il seguente principio di diritto, espresso dalla Sezioni Unite: «se, dopo la conclusione di un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, il correntista agisce per far dichiarare la nullità della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto pagato indebitamente a questo titolo, il termine di prescrizione decennale cui tale azione di ripetizione è soggetta decorre, qualora i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, dalla data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati».
Le Sezioni Unite, quindi, pur discostandosi dal concetto di unitarietà del rapporto giuridico derivante dal contratto di conto corrente bancario, individuano il dies a quo del termine decennale di prescrizione, normalmente, nel momento della chiusura definitiva del rapporto, respingendo, così, le tesi delle banche che volevano tale decorrenza dal momento dell’annotazione in conto.
Tuttavia, l’aver posto in discussione il principio dell’unitarietà del rapporto derivante da conto corrente e l’aver voluto distinguere tra versamenti solutori e versamenti ripristinatori, cui consegue una diversa decorrenza (anche in costanza di rapporto) del termine prescrizionale, ha riaperto un dibattito sull’anatocismo, che pareva definitivamente sopito, introducendo nuovi spunti di riflessione o, probabilmente, di incertezza.
La stessa distinzione tra rimesse di natura solutoria e rimesse di natura meramente ripristinatoria non è agevole.
Un primo problema è quello dell’individuazione del metodo per inferire la natura ripristinatoria o solutoria di una rimessa. In particolare, se deve farsi riferimento alle risultanze degli estratti conto bancari o, al contrario, al saldo, così come ricalcolato e rettificato, dopo essere stato epurato dagli effetti determinati dalla presenza di clausole nulle.
La soluzione accolta dalla giurisprudenza è quest’ultima: deve ritenersi solutoria unicamente la rimessa che va a coprire uno sconfinamento, che è tale dopo essere stato liberato il conto dall’anatocismo e dalle altre competenze illegittime (Trib. Ancona, 12 aprile 2016; Trib. Alessandria, 21 febbraio 2015, Trib. Udine, 29 ottobre 2013).
Un’altra questione afferisce all’onere della prova circa la natura solutoria o ripristinatoria della rimessa.
Le rimesse in conto corrente hanno normalmente funzione ripristinatoria, corrispondendo ciò con lo schema causale tipico del contratto di apertura di credito (Cass., 26 febbraio 2014, n. 4518; Trib. Taranto, 17 marzo 2016; Trib. Padova, 6 marzo 2016).
Spetta, quindi, a colui che vuole conferire alla rimessa una diversa finalizzazione – di regola la banca al fine di fondare la propria eccezione di prescrizione - allegare e provare, in modo specifico, la natura solutoria della rimessa, non potendo tale compito essere demandato alla CTU, posto che la stessa avrebbe un contenuto esplorativo in assenza dell’allegazione dei fatti costitutivi dell’eccezione (App. Bari, 8 dicembre 2015; App. Lecce, 12 novembre 2015; Trib. Pavia, 21 aprile 2016; Trib. Taranto 17 marzo 2016).
Invero, l’eccezione di prescrizione“è inammissibile ove la Banca sollevi detta eccezione in maniera generica. E’ onere, infatti, di chi formula l’eccezione stessa di indicare puntualmente le rimesse aventi carattere solutorio, non potendo tale indagine essere affidata al ctu, posto che altrimenti la stessa avrebbe un contenuto esplorativo (Trib. Pavia, 21 aprile 2016).
In ogni caso, anche ove volesse ritenersi, in alcune ipotesi, gravare sul correntista l’onere di provare la natura ripristinatoria delle rimesse, tramite la dimostrazione dell’esistenza del contratto di apertura di credito, tale prova non può soggiacere ai limiti di cui all’art 2725 cod. civ., in quanto la mancanza della forma scritta, richiesta dall’art. 117 TUB, determina una nullità di protezione che può essere invocata solo dal correntista o rilevata dal Giudice nell’interesse dello stesso (Trib. Torino, 2 luglio 2014; Trib. Torino, 31 ottobre 2014). Ragionare diversamente e quindi fare applicazione in tale materia dell’art. 2725 cod. civ. vorrebbe dire interpretare la regola di cui all’art. 117 TUB in danno del cliente e quindi in contrasto con l’art. 127 TUB (per un percorso argomentativo simile, Cass., 25 luglio 2013, n. 18079).
In tale ottica, l’esistenza dell’affidamento e, quindi, la sussistenza di linee di credito a favore del correntista può essere ricavata da una serie elementi, tra i quali le risultanze della Centrale Rischi della Banca d’Italia, la mancata richiesta di rientro (e, quindi, l’aver la banca consentito al cliente di utilizzare per molto tempo un fido), l’applicazione costante di commissioni di massimo scoperto.
A maggior ragione è a dirsi per tutti i contratti stipulati antecedentemente all’anno 1992, quando nessun obbligo di forma era previsto (di recente, Trib. Prato, 18 febbraio 2016).
Tuttavia, va segnalato un diverso e più diffuso orientamento della giurisprudenza secondo cui l’onere del prova dell’esistenza del contratto di apertura di credito ricade sul correntista, in forza del principio secondo cui è la parte che deduca la sussistenza di un contratto al fine di trarre conseguenze a sé favorevoli (in questo caso, al fine di paralizzare l’eccezione di prescrizione della banca) a doverne dare la prova attraverso la produzione del contratto (ex plurimis, App. Brescia, 23 dicembre 2015).