Anatocismo bancario - cronologia sentenze

Da sempre gli istituti di credito, nell’àmbito dei contratti di apertura di credito in conto corrente, hanno operato una capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, nella considerazione dell’esistenza di una norma consuetudinaria che imponesse o quanto meno legittimasse tale contegno, ponendo in essere un doppio regime di capitalizzazione a esclusivo proprio vantaggio: trimestrale – e quindi quattro volte l’anno – sugli interessi passivi, annuale sugli interessi attivi.

Tali posizioni, inizialmente, trovavano il conforto della giurisprudenza, che, per quasi venti anni, riconosceva, in materia, l’esistenza di usi normativi, ravvisandone i presupposti oggettivi (ripetizione generale e uniforme di un determinato comportamento - usus) e soggettivi (convinzione della doverosità della condotta tenuta - opinio iuris ac necessitatis), ritenendoli, in quanto tali, idonei a derogare al divieto stabilito dall’art. 1283 cod. civ.

Gli usi avrebbero trovato le loro origini in epoca antecedente al codice civile e, segnatamente, verso gli anni ‘30, quando le raccolte scritte delle Camere di Commercio iniziarono a prevederli.

Da ciò conseguiva la validità di tali clausole e il loro ingresso automatico nel regolamento contrattuale, ai sensi dell’art. 1374 cod. civ.

  1. Le sentenze gemelle del 1999.

Nel 1999, la giurisprudenza della Suprema Corte, con le note sentenze c.d. “gemelle”, cui seguiva immediatamente una terza pronuncia, che espressamente dichiarava di voler “dare continuità” alle precedenti, con portata dirompente, modificava il proprio orientamento, affermando che la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente non era riconducibile ad un uso normativo, del tutto inesistente in materia, quanto, invece, ad un mero uso contrattuale ex art. 1340 cod. civ., inidoneo a derogare alla norma imperativa di cui all’art. 1283 cod. civ.

Nessun uso normativo, inoltre, poteva essere riscontrato in epoca antecedente all’entrata in vigore del codice civile del 1942: infatti, l’esistenza di clausole anatocistiche era stata accertata, per la prima volta, nelle Norme Bancarie Uniformi, in materia di conto corrente di corrispondenza, nel 1952, e, quindi, in epoca successiva al codice civile.

Antecedentemente al 1952, non era dato rinvenire alcun richiamo a tali clausole né nelle raccolte locali di usi delle Camere di commercio né nella ricognizione effettuata dalla Commissione costituita presso il Ministero dell’Industria. In ogni caso, si precisava che l’inserimento nelle raccolte degli usi della camera di commercio avrebbe potuto porre una presunzione di esistenza dell’uso, ai sensi dell’art. 9 disp. prel. al codice civile, ma nulla dire in relazione alla natura contrattuale o normativa dell’uso stesso.

Pertanto, non vi era alcun elemento che autorizzasse a ritenere esistente, prima del 1942, un uso normativo che prevedesse la capitalizzazione trimestrale degli interessi, a carico del cliente, ad opera dell’istituto di credito.

Le Norme Bancarie Uniformi, peraltro, venivano qualificate come proposte di condizioni generali di contratto che un’associazione di categoria (l’ABI: Associazione Bancaria Italiana) predisponeva per i propri associati[1]. Di conseguenza, non potevano avere alcuna valenza normativa, ma unicamente quella propria delle condizioni generali di contratto, ai sensi degli artt. 1341 e 1342 cod. civ., ove richiamate.

Alla riconduzione a un uso normativo, in ogni caso, ostava la carenza dell’elemento psicologico: da massime di comune esperienza si ricavava che l’inserimento nei contratti della clausola anatocistica non era accompagnato dalla convinzione, in capo agli utenti bancari, della doverosità di tale contegno, ma accettato passivamente dagli stessi, in quanto tale clausola era compresa nei moduli predisposti dalle banche, non oggetto di negoziazione e presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari.

Pertanto, secondo tale nuovo orientamento giurisprudenziale, rimasto, nelle sue linee fondamentali, invariato fino ad oggi, le clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente sono nulle, in quanto fondate su di un mero uso negoziale, inidoneo, come detto, a derogare al divieto di cui all’art. 1283 cod. civ.

Dalla nullità di tali clausole consegue, secondo la disciplina dell’indebito oggettivo di cui all’art. 2033 cod. civ., il diritto dell’utente bancario di ripetere tutte le somme percepite dalla banca a questo titolo.